IBL - Dieci riforme liberiste a costo zero:
"SECONDO ME LOTTIERI SBAGLIA, PERCHè MOLTE DELLE SUE PROPOSTE PORTEREBBERO A FAVORIRE GLI OLIGOPOLISTI ED A RIDURRE LA CONCORRENZA, MA PUBBLICO UGUALMENTE
Un gran numero di interventi destinati ad aiutare famiglie e imprese può essere realizzato senza gravare sui conti pubblici
di Carlo Lottieri
Un gran numero di interventi destinati ad aiutare famiglie e imprese può essere realizzato senza gravare sui conti pubblici.
Dalla cancellazione delle province a quella degli ordini professionali: ecco il decalogo dei provvedimenti
Uno dei pretesti che i conservatori di tutti i partiti chiamano in causa per evitare le riforme più urgenti è che, purtroppo, lo stato delle finanze pubbliche è quello che è. Niente soldi, e dunque niente riforme. Ma in realtà un gran numero di provvedimenti destinati davvero a venire incontro a famiglie e imprese può essere realizzato a costo zero. Anzi: in molti casi si tratta di operazioni che possono perfino ridurre la spesa pubblica e/o comportare entrate straordinarie, così da ridurre il debito e, di conseguenza, gli interessi su Bot e Cct che siamo costretti a finanziare con le nostre imposte.
L’elenco delle cose da fare sarebbe molto lungo. Qui si è scelto di indicare essenzialmente alcune tra le riforme di cui si parla da più tempo e che dovrebbero maggiormente stare a cuore a quanti nutrono convincimenti in qualche modo liberali.
1. Cancellazione delle province. L’economia italiana deve fare i conti non soltanto con una pressione fiscale oppressiva, ma anche con una autentica piovra di politici e burocrati che in vario modo intralciano la libera iniziativa e falsano il mercato. Se oggi una vera industria culturale, ad esempio, fatica a crescere è anche perché assessori e funzionari sono costantemente impegnati a finanziare amici e clienti. Per ridimensionare questa idra dalle mille teste si può partire dal più inutile dei livelli di governo: quello provinciale. Ne guadagneranno le tasche dei contribuenti, ma anche le opportunità di successo di quanti operano sul mercato.
2. Privatizzazione di imprese pubbliche (Eni, Enel, Cassa depositi e prestiti, ecc.) e municipalizzate. Un mercato non è davvero tale se alcune aziende possono costantemente contare sugli aiuti pubblici e altre invece, se vanno male, chiudono. Al fine di aiutare l’economia a crescere in dinamismo bisogna allora avviare un ampio progetto di privatizzazioni, così da separare definitivamente politica ed economia, all’insegna del motto “Libera impresa in libero Stato”.
3. Cessione delle case popolari e creazione, con il ricavato, di buoni-affitto. La politica statalista in tema di edilizia popolare è stata fallimentare, producendo disagi sociali, ingiustizie, privilegi. In molte occasioni si sono costruiti orribili alveari, che hanno prodotto infelici segregazioni urbanistiche. Gli enti pubblici devono ritrarsi da tali ambiti, ma per far questo bisogna vendere le case popolari e utilizzare il ricavato per aiutare con assegni temporanei quanti hanno difficoltà economiche, lasciando loro la libertà di trovare un’abitazione in affitto sul mercato.
4. Abolizione di ogni ostacolo al lavoro. In Italia vi sono moltissime norme che ostacolano la libera iniziativa – gli orari di apertura dei negozi, per esempio – e l’incontro tra domanda e offerta, causando alti livelli di disoccupazione. Soprattutto al Sud, queste regole impediscono rapporti capitalistici tra adulti consenzienti e, in definitiva, generano solo povertà, mercato nero, emigrazione. Bisogna fare in modo che ogni norma in materia di lavoro possa essere superata per via negoziale, se vi è l’accordo delle parti. Se uno può votare sull’aborto o sulla responsabilità dei giudici, perché poi non può decidere sul suo personale contratto di lavoro?
5. Liberalizzazione dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie. La giustizia – e soprattutto quella civile! – non funziona; e in primo luogo perché è una realtà fuori mercato. Nel resto del mondo stanno crescendo i metodi alternativi di risoluzione delle controversie: l’arbitrato (dove la sentenza è formulata da un giudice privato, scelto dalle parti) e la mediazione (che non si conclude con una sentenza, ma approda a un accordo extragiudiziale). Bisogna che la legislazione smetta di intralciare questi istituti, permettendo a chiunque lo voglia di fare l’arbitro o il mediatore e lasciando che sia il mercato a giudicarne le qualità.
6. Consolidamento delle regole sulla concorrenza (ad esempio, sganciare Rfi da Trenitalia). Troppi settori soffrono le conseguenze di privatizzazioni e liberalizzazioni solo parziali: specie nel caso dei sistemi “a rete”. C’è bisogno che le aziende che utilizzano i medesimi binari o lo stesso cavo siano poste su un piano di parità.
7. Trasformare gli ordini in associazioni, partendo da notai e giornalisti. Anche se il regime fascista è morto nel 1945, molta parte di quella cultura è ancora viva e vegeta. Lo testimonia il persistere delle corporazioni. La riforma è semplice: si trasformino gli ordini in associazioni a cui ci si può iscrivere oppure no, lasciando a chiunque la libertà di praticare la professione che predilige.
8. Abolizione del valore legale del titolo di studio. Questo obbrobrio non trova alcuno spazio, ovviamente, nel settore privato (dove vali per quello che sai e sai fare, e non certo per un pezzo di carta). Non è così, però, nel settore pubblico, che sacralizza bolli e pergamene. Si ascolti Luigi Einaudi e si volti pagina.
9. Fine del regime che regola limita l’apertura di nuove farmacie. Perché in una qualunque strada di un villaggio della Georgia caucasica è possibile trovare, una fianco all’altra, tre farmacie e in Italia no? La nostra legge autorizza solo una farmacia ogni 5 mila abitanti e quasi ci dice che per fare il farmacista lo deve essere anche tuo padre. Le lenzuolate del centro-sinistra hanno introdotto qualche parziale modifica. C’è qualcuno che sappia essere un po’ più liberale di Bersani?
10. Fine dell’obbligo di iscrizione alle camere di commercio. Come per gli ordini, è necessario che queste realtà siano indotte a operare bene, mettersi a disposizione degli iscritti, offrire servizi di qualità. Ma l’unico modo perché ciò avvenga è che artigiani, industriali o commercianti possano decidere di non pagare la quota associativa. È una soluzione semplice. L’unica che esiste.
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