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venerdì 13 maggio 2011

Nico Valerio

Nico Valerio: "RIFORME. Ecco le dieci liberalizzazioni a costo zero che si potrebbero fare subito


Si fa un gran parlare di liberalizzare e modernizzare l’economia italiana, per metterla al passo dell’Europa, ma nessuno, né a Destra né a Sinistra, ha mai fatto in pratica nulla di rilevante in questa direzione. Il conservatorismo e l’arretratezza della classe politica italiana prevalgono ancora. E meno male che siamo in Europa. Ormai ci tocca solo sperare che dall’Unione Europea arrivi prima o poi un severo aut-aut sulla libertà economica, materia in cui siamo ultimi nel Continente.

MONOPOLI, CORPORAZIONI E PRIVILEGI, ALTRO CHE MERCATO LIBERO. Altro che “eccesso di mercato” o di “liberismo” come lamentano nell’ultra-sinistra, evidentemente digiuni di economia liberale. In Italia ci sono monopoli, oligopoli, corporazioni, privilegi, elargizioni, impedimenti di ogni tipo: tutto il contrario del “mercato”. La stessa sudditanza dei cittadini-consumatori rispetto ai produttori è una patologia che ci tiene lontani dal mercato libero e dalla vera concorrenza. Ogni governo, di Destra o di Sinistra che sia, conserva un dicastero segreto, il ministero delle Corporazioni, lo stesso che fu creato dal Fascismo. Ecco perché l’economia italiana è ancora legata strettamente alla politica. Noi italiani il mercato libero neanche sappiamo che cosa sia. E se ci fosse, il panorama quotidiano sarebbe tutto diverso.

GOVERNI INSENSIBILI AI CITTADINI, MA SENSIBILISSIMI ALLE CORPORAZIONI. E come se la fanno sotto i Governi, insensibili alle proteste dei cittadini e consumatori, quando una corporazione a cui si sta tentando di ridurre i privilegi protesta! Perfino di fronte alla reazione corporativa di tassisti, notai, titolari di farmacie, avvocati e benzinai, i Governi – specialmente quello populista di Destra, più sensibile al consenso dei settori più retrivi e corporativi della società – si sono subito fermati. Anzi, per curioso paradosso, l’unica modesta e parziale liberalizzazione fu tentata proprio da Bersani, ex comunista e ministro di un governo di Sinistra, quello di Prodi. Ma dal governo Berlusconi, che ha sempre in bocca l’aggettivo “liberale”, nulla. Anzi, dal suo ministro dell’economia, l’ex socialista Tremonti, sono sempre venuti provvedimenti colbertisti e statalisti (pensiamo solo al salvataggio nazionalistico, inutile e antieconomico dell’Alitalia).

E L’UNITA’ D’ITALIA COMINCIO’ COSI’. Le liberalizzazioni ci ricordano il grande Cavour, che contro le resistenze locali svecchiò quasi di prepotenza il Piemonte e poi l’Italia importando le misure inglesi sul mercato e l’economia. Si ebbero, anche allora, molte proteste, certo, ma per fortuna il conte aveva un caratteraccio, e seppe rispondere ad ogni obiezione conservatrice. Dopo l’anno del bicentenario della sua nascita, ora celebriamo i 150 anni dell’Unità d’Italia, resa possibile unicamente dalla volontà e astuzia del genio Cavour, oltreché dall’intraprendenza di Garibaldi, due italiani cosmopoliti, quasi stranieri in Patria, che guardavano sempre a ciò che di buono si realizzava nei Paesi socialmente più progrediti.

EINAUDI E IL SUO ALLIEVO PREDILETTO, ERNESTO ROSSI. Ma le lotte ai privilegi, alle sovvenzioni statali e ai monopoli, la “uguaglianza nei punti di partenza” tra cittadini, l’equiparazione-contrapposizione nel mercato di consumatori e produttori, l’abolizione del valore legale dei titoli di studio, la cancellazione degli Ordini professionali (non per caso quello dei giornalisti fu voluto dal Fascismo), ci ricordano anche il grande economista e politico liberale Luigi Einaudi, e il suo allievo prediletto Ernesto Rossi. L’Italia era arretrata, dicevano, non solo per antiche e sedimentate ragioni culturali e storiche, ma anche a causa di monopoli, statalismo, protezionismo e corporativismo.

IL “DECALOGO” DI LOTTIERI. Sul tema delle liberalizzazioni, ecco una proposta “facile” di Carlo Lottieri, dell’Istituto Bruno Leoni, pubblicata dal Giornale il 22 aprile scorso, per intervenire senza aggravi di spese sui conti pubblici avvantaggiando sia i cittadini, sia le imprese. Sarà facile per gli economisti liberali, ma certo sarà difficilissima, quasi impossibile, per un governo populista e non liberale come l’attuale.

LA PRIMA OBIEZIONE: IL MERCATO DELLE CASE E DEGLI AFFITTI. Tuttavia, due punti di questo “decalogo” lasciano perplessi, obietto insieme col lettore Roberto (che ringrazio del commento critico): gli affitti delle case e i contratti di lavoro. La casa in Italia non è un bene come tutti gli altri. Le case sfitte, le seconde, terze o quarte case tenute vuote, non possono essere considerate un bene qualsiasi. Il mercato immobiliare è un mercato speculativo completamente slegato dai salari e dai redditi reali dei cittadini, in cui si fa accaparramento, cioè non si mette sul libero mercato il bene, ma lo si conserva per motivi extra-mercato, come la politica fiscale. Sostenere con assegni gli affitti, anziché liberalizzare il mercato potrebbe alimentare il circolo vizioso. Invece dovrebbe essere pesantemente disincentivata la pura speculazione e incentivata la messa sul mercato, per esempio detassando completamente l’immobile dato in affitto. Dopo di che si può anche pensare di svendere il patrimonio pubblico, che però è poca cosa rispetto ad altri Paesi europei, nei quali è una delle politiche che insieme al fisco calmieravano il mercato immobiliare spingendo la messa sul mercato delle case a prezzi ragionevoli. Cosa che in Italia manca. Se non si risolve questo punto la 'liberalizzazione' proposta è a favore solo di chi specula per tenere prezzi troppo elevati rispetto al reale mercato degli affitti (e delle case).

LA SECONDA OBIEZIONE: IL MERCATO DEL LAVORO. Il secondo punto discutibile è quello dei contratti di lavoro. E’ vero che si è adulti consenzienti, ma come ripeteva spesso Luigi Einaudi auspicando una maggiore equiparazione in quanto a forza contrattuale tra venditori e acquirenti (tanto più nel mercato del lavoro, il solo caso in cui è l’offerta ad essere la parte debole), chi cerca lavoro e chi lo offre non sono sempre, per non dire quasi mai, nelle stesse condizioni negoziali. Lo Stato non deve fare chissà che, ma almeno deve fare in modo che una delle parti contraenti non sia in evidente ed eccessiva posizione di forza rispetto all'altra. La einaudiana “uguaglianza dei punti di partenza” è anche questo.
NICO VALERIO

ECCO LE DIECI RIFORME FACILI “A COSTO ZERO”. “Un gran numero di interventi destinati ad aiutare famiglie e imprese può essere realizzato senza gravare sui conti pubblici.
Dalla cancellazione delle province a quella degli ordini professionali: ecco il decalogo dei provvedimenti
Uno dei pretesti che i conservatori di tutti i partiti chiamano in causa per evitare le riforme più urgenti è che, purtroppo, lo stato delle finanze pubbliche è quello che è. Niente soldi, e dunque niente riforme. Ma in realtà un gran numero di provvedimenti destinati davvero a venire incontro a famiglie e imprese può essere realizzato a costo zero. Anzi: in molti casi si tratta di operazioni che possono perfino ridurre la spesa pubblica e/o comportare entrate straordinarie, così da ridurre il debito e, di conseguenza, gli interessi su Bot e Cct che siamo costretti a finanziare con le nostre imposte.
L’elenco delle cose da fare sarebbe molto lungo. Qui si è scelto di indicare essenzialmente alcune tra le riforme di cui si parla da più tempo e che dovrebbero maggiormente stare a cuore a quanti nutrono convincimenti in qualche modo liberali.

1. Cancellazione delle province. L’economia italiana deve fare i conti non soltanto con una pressione fiscale oppressiva, ma anche con una autentica piovra di politici e burocrati che in vario modo intralciano la libera iniziativa e falsano il mercato. Se oggi una vera industria culturale, ad esempio, fatica a crescere è anche perché assessori e funzionari sono costantemente impegnati a finanziare amici e clienti. Per ridimensionare questa idra dalle mille teste si può partire dal più inutile dei livelli di governo: quello provinciale. Ne guadagneranno le tasche dei contribuenti, ma anche le opportunità di successo di quanti operano sul mercato.

2. Privatizzazione di imprese pubbliche (Eni, Enel, Cassa depositi e prestiti, ecc.) e municipalizzate. Un mercato non è davvero tale se alcune aziende possono costantemente contare sugli aiuti pubblici e altre invece, se vanno male, chiudono. Al fine di aiutare l’economia a crescere in dinamismo bisogna allora avviare un ampio progetto di privatizzazioni, così da separare definitivamente politica ed economia, all’insegna del motto “Libera impresa in libero Stato”.

3. Cessione delle case popolari e creazione, con il ricavato, di buoni-affitto. La politica statalista in tema di edilizia popolare è stata fallimentare, producendo disagi sociali, ingiustizie, privilegi. In molte occasioni si sono costruiti orribili alveari, che hanno prodotto infelici segregazioni urbanistiche. Gli enti pubblici devono ritrarsi da tali ambiti, ma per far questo bisogna vendere le case popolari e utilizzare il ricavato per aiutare con assegni temporanei quanti hanno difficoltà economiche, lasciando loro la libertà di trovare un’abitazione in affitto sul mercato.

4. Abolizione di ogni ostacolo al lavoro. In Italia vi sono moltissime norme che ostacolano la libera iniziativa – gli orari di apertura dei negozi, per esempio – e l’incontro tra domanda e offerta, causando alti livelli di disoccupazione. Soprattutto al Sud, queste regole impediscono rapporti capitalistici tra adulti consenzienti e, in definitiva, generano solo povertà, mercato nero, emigrazione. Bisogna fare in modo che ogni norma in materia di lavoro possa essere superata per via negoziale, se vi è l’accordo delle parti. Se uno può votare sull’aborto o sulla responsabilità dei giudici, perché poi non può decidere sul suo personale contratto di lavoro?

5. Liberalizzazione dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie. La giustizia – e soprattutto quella civile! – non funziona; e in primo luogo perché è una realtà fuori mercato. Nel resto del mondo stanno crescendo i metodi alternativi di risoluzione delle controversie: l’arbitrato (dove la sentenza è formulata da un giudice privato, scelto dalle parti) e la mediazione (che non si conclude con una sentenza, ma approda a un accordo extragiudiziale). Bisogna che la legislazione smetta di intralciare questi istituti, permettendo a chiunque lo voglia di fare l’arbitro o il mediatore e lasciando che sia il mercato a giudicarne le qualità.

6. Consolidamento delle regole sulla concorrenza (ad esempio, sganciare Rfi da Trenitalia). Troppi settori soffrono le conseguenze di privatizzazioni e liberalizzazioni solo parziali: specie nel caso dei sistemi “a rete”. C’è bisogno che le aziende che utilizzano i medesimi binari o lo stesso cavo siano poste su un piano di parità.

7. Trasformare gli ordini in associazioni, partendo da notai e giornalisti. Anche se il regime fascista è morto nel 1945, molta parte di quella cultura è ancora viva e vegeta. Lo testimonia il persistere delle corporazioni. La riforma è semplice: si trasformino gli ordini in associazioni a cui ci si può iscrivere oppure no, lasciando a chiunque la libertà di praticare la professione che predilige.

8. Abolizione del valore legale del titolo di studio. Questo obbrobrio non trova alcuno spazio, ovviamente, nel settore privato (dove vali per quello che sai e sai fare, e non certo per un pezzo di carta). Non è così, però, nel settore pubblico, che sacralizza bolli e pergamene. Si ascolti Luigi Einaudi e si volti pagina.

9. Fine del regime che regola limita l’apertura di nuove farmacie. Perché in una qualunque strada di un villaggio della Georgia caucasica è possibile trovare, una fianco all’altra, tre farmacie e in Italia no? La nostra legge autorizza solo una farmacia ogni 5 mila abitanti e quasi ci dice che per fare il farmacista lo deve essere anche tuo padre. Le lenzuolate del centro-sinistra hanno introdotto qualche parziale modifica. C’è qualcuno che sappia essere un po’ più liberale di Bersani?

10. Fine dell’obbligo di iscrizione alle camere di commercio. Come per gli ordini, è necessario che queste realtà siano indotte a operare bene, mettersi a disposizione degli iscritti, offrire servizi di qualità. Ma l’unico modo perché ciò avvenga è che artigiani, industriali o commercianti possano decidere di non pagare la quota associativa. È una soluzione semplice. L’unica che esiste”.
CARLO LOTTIERI

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